Purtroppo ci sono sanitari che rifiutano il vaccino, mettendo a rischio loro stessi e i loro pazienti. Vitalba Azzollini, giurista, ci spiega il quadro giuridico nel quale s’inserisce questo rifiuto e un eventuale obbligo.
Medici e infermieri devono vaccinarsi contro la Covid-19? Sul piano etico e civile, la risposta è inequivocabile: devono vaccinarsi. Il personale sanitario deve non solo adottare ogni misura idonea a tutelare i pazienti, ma anche essere d’esempio. In un momento come questo i “testimonial” sono importanti. Basti pensare a un medico di base che non si vaccinasse: anche senza esternare eventuali motivazioni “no-vax”, sarebbe di certo un modello negativo per gli assistiti.
Ma, sul piano giuridico, medici e infermieri possono essere obbligati a vaccinarsi? Come talora accade in diritto, la risposta non è agevole. Si proverà a dipanare la matassa, scindendo profili diversi.
Obbligo vaccinale imposto per legge
Innanzitutto, il personale sanitario deve vaccinarsi se a prescriverlo è una legge. La Costituzione è chiara al riguardo. L’art. 32 affida alla Repubblica il compito di tutelare la salute, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», disponendo inoltre che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», e sempre entro «i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Dunque, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, ma anche il diritto di non curarsi, quindi pure di rifiutare la vaccinazione, il suo diritto va contemperato con il diritto degli altri e con l’interesse della collettività alla salute. In altri termini, la salute è un bene non solo individuale, ma sociale: ciascuno può valutare cos’è meglio per sé, ma non è libero di nuocere alla salute altrui o alla salute pubblica.
Dunque, la Costituzione prevede che possa essere imposto un determinato trattamento sanitario, quindi anche una vaccinazione, mediante una legge e nel rispetto della persona umana. Non basterebbe un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Potrebbe utilizzarsi un decreto-legge, data la “necessità e urgenza” di arrivare quanto prima alla copertura degli operatori sanitari, e la scelta già fatta col piano nazionale di vaccinarli prioritariamente sarebbe un elemento a supporto della decisione. La Consulta ha precisato altresì che il trattamento non deve incidere negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo conseguenze normali e tollerabili, e che va prevista un’equa indennità nell’ipotesi di danno ulteriore. Potrebbe essere sollevata l’obiezione secondo cui al momento la vaccinazione non assicura la non trasmissibilità del virus e quindi non sarebbe soddisfatta la condizione della tutela della salute collettiva, richiesta dalla Costituzione per imporre un trattamento sanitario, sacrificando la libertà individuale. Al riguardo, sulla base del principio di precauzione e dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, può ritenersi che – pure nella temporanea assenza di risultati certi sulla non trasmissibilità del virus – l’obbligo vaccinale possa reputarsi ragionevole.
Quindi, la scelta spetta al legislatore. E se il legislatore non intervenisse? A questo punto si aprono due strade, come si vedrà di seguito, ma attenzione: entrambe arrivano a una sorta di “obbligo” di vaccino, che tuttavia ha natura privatistica, cioè attiene allo specifico rapporto tra operatore sanitario e datore di lavoro. Solo in caso di imposizione con legge l’obbligo opererebbe nei confronti di tutti.
Il vaccino ai sensi del Testo Unico Salute e Sicurezza
La prima strada passa attraverso il cosiddetto Testo Unico Salute e Sicurezza (d.lgs. 81/2008), che contiene disposizioni dedicate ad attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici, cioè condizioni di pericolosità immediatamente riconducibili e connesse all’attività. E il SARSCoV-2 è stato di recente classificato come agente patogeno per l’uomo del gruppo appartenente a una categoria di rischio molto rilevante. Qualora il lavoratore corra un rischio da esposizione ad agenti biologici, il datore di lavoro, «su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari». Fra queste, «la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente» il quale, tra le altre cose, deve dare adeguata informazione dei «vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione» (art. 279). Qualora il lavoratore rifiuti il vaccino e da ciò discenda un’inidoneità alla mansione, secondo quanto indicato dal medico competente, la norma prevede «l’allontanamento temporaneo» del lavoratore, che il datore di lavoro adibisce, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento economico corrispondente alle mansioni di provenienza. Se ciò non fosse possibile, non si esclude che il datore di lavoro possa andare oltre, fino ad arrivare al licenziamento.
Dunque, come detto, serve lo specifico rischio di esposizione al virus – e non un potenziale pericolo di contatto accidentale – perché al lavoratore possa essere richiesta una vaccinazione. Nel settore sanitario, oltre al personale addetto a reparti Covid-19, si potrebbe pensare a chi lavora in reparti ove è più probabile siano accolti pazienti infetti, come terapia intensiva, malattie infettive o pneumologia.
Obbligo privatistico di vaccinazione
Poi c’è la strada che attiene al piano privatistico del rapporto tra personale sanitario e datore di lavoro. Quest’ultimo potrebbe chiedere la vaccinazione come condizione alla quale subordinare lo svolgimento di determinate mansioni e considerare come inadempimento contrattuale la mancata osservanza della sua direttiva. Questa strada potrebbe essere percorsa dal datore di lavoro non tanto a tutela della salute del lavoratore, quanto al fine del più corretto svolgimento dell’attività lavorativa nei confronti dell’utenza, in via cautelativa, data la momentanea assenza di certezza circa la trasmissibilità del virus nonostante la vaccinazione, come detto.
Infatti, può reputarsi che la tutela della salute dei pazienti connoti la prestazione lavorativa di medici e infermieri e, quindi, impronti il loro rapporto contrattuale. Al riguardo, basti considerare che la struttura sanitaria nella quale essi svolgono l’attività professionale è tenuta a garantire non solo effettuazione di cure mediche e chirurgiche, ma anche sicurezza e salubrità dell’ambiente, a fini di protezione dei pazienti. Nel caso in cui uno di questi ultimi contraesse il virus, la struttura potrebbe dover rispondere per non aver assicurato l’organizzazione e l’efficienza necessaria. Per tale motivo – cioè per garantire condizioni di sicurezza, nonché per difendersi da eventuali istanze risarcitorie avanzate da pazienti che si siano infettati – la struttura potrebbe richiedere al personale sanitario di vaccinarsi. Tale richiesta sarebbe, peraltro, corroborata da quanto previsto dai codici di deontologia delle professioni sanitarie: il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente, così come l’infermiere promuove le migliori condizioni di sicurezza della persona assistita. Tuttavia, un generalizzato obbligo di vaccinazione per il personale sanitario non potrebbe farsi automaticamente discendere dai codici di deontologia, che pure prevedono sanzioni che arrivano fino alla radiazione dall’albo: questo sarebbe un modo surrettizio per un’imposizione che può essere sancita solo per legge, come visto.
Qualora l’operatore sanitario non si conformasse alla direttiva del datore di lavoro, le conseguenze potrebbero essere le medesime configurate nell’ipotesi precedente, salvo differenze derivanti dalla normativa del codice civile.
Entrambe le strade da ultimo tracciate potrebbero dare luogo a contestazioni e contenzioso da parte di chi comunque non volesse ottemperare alla richiesta del datore di lavoro. Ciò avrebbe ripercussioni sull’attività di operatori sanitari dei quali oggi c’è enorme bisogno. Anche per questo motivo sarebbe preferibile un intervento chiaro del legislatore, anche al fine di bilanciare interessi diversi, individuare criteri inequivocabili di prescrizione della vaccinazione e garantire condizioni di uniformità per lavoratori in condizioni similari. Tale intervento sarebbe doveroso per chiarire la situazione, anche in termini di assunzione di responsabilità, circa una scelta così importante per la vita di tutti.
Vitalba Azzollini
Giurista
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