La prima di due puntate sul SSN, dalla sua creazione alla fine degli anni Settanta fino ai giorni nostri, grazie al contributo di un dottore iscritto al Federazione Italiana Medici di Famiglia (FIMMG)
Non possiamo certo nascondercelo. Stiamo vivendo una fase molto critica dal punto di vista sociale, economico, psicologico e sanitario. Questa preoccupazione, che s’inscrive all’interno di una più ampia e complessiva, rischia di mandare in crisi i vari sistemi in cui è articolato il nostro Paese. Stavamo già vivendo una fase di transizione complessiva, demografica, epidemiologica, tecnologica, che sarà ulteriormente accelerata e andrà ad agire ancora più pesantemente su quello economico-produttivo, quello scolastico e dell’istruzione, quello della sicurezza sociale e quello assistenziale e sanitario.
E su quest’ultimo si concentrano molte domande, poiché in questo momento è percepito come centrale. Da esso si richiedono risposte di “protezione” per la nostra collettività e vivere sociale. Allora la domanda è: il nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN) saprà reggere a questo momento, ma fino a quando? Quali saranno gli esiti di questo massiccio stress-test a cui è stato sottoposto e la sua articolazione in 21 Sistemi Regionali? Sarà necessario sviluppare una nuova governance del paradigma assistenziale?
Le criticità
Due sono le aree di macro-criticità sulle quali bisognerà interrogarsi, perché dalle risposte che saremo in grado di dare ne potrà derivare non tanto e non solo la sconfitta del coronavirus, quanto lo sviluppo di un diverso assetto sociale e di benessere collettivo.
La prima riguarda il costante de-finanziamento e il processo di eccessiva managerizzazione cui è stato sottoposto il SSN, anche a motivo della assenza di una vera cultura di Public Management, che non ha saputo gestire a pieno le opportunità delle varie riforme. La seconda attiene alla mancanza di robuste politiche di sviluppo dell’assistenza territoriale e la frammentazione del Servizio Sanitario che, lungi dallo svilupparsi secondo una logica di “sistema”, è stato percorso da logiche improntate a modelli a “canne d’organo”, resistente a prospettive di pro-attività e prossimità delle cure.
La storia
Il Servizio Sanitario Nazionale nasce il 24 dicembre 1978 con la legge di riforma sanitaria n. 833, che introduce un modello universalistico di tutela della salute, sostituendo il vecchio sistema mutualistico fino ad allora vigente e ponendo gli oneri a carico della fiscalità generale. Questo nuovo assetto persegue gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le istituzioni attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria, con l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali (USL) e la formazione del Distretto Sanitario di Base. Seguono anni complessi d’instabilità sociale e politica, unitamente all’impossibilità di combinare una domanda sanitaria potenzialmente infinita, con una disponibilità di risorse sempre più “finita” e “contenuta” dall’esistenza di espliciti e crescenti vincoli finanziari.
All’inizio degli anni Novanta nasce, quindi, l’esigenza di razionalizzare la spesa sanitaria attraverso una modifica dell’assetto organizzativo e gestionale del SSN, pur mantenendo i suoi principi ispiratori. Con i D.lgs 502/92 e 517/93 si introducono il concetto di aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (USL), che sono dunque trasformate in Aziende Sanitarie Locali (ASL), l’individuazione di Livelli uniformi di assistenza (Lea) da garantire a tutti i cittadini, l’introduzione di nuovi criteri di finanziamento e di spesa e il potenziamento del ruolo delle Regioni.
Il processo di aziendalizzazione doveva essere rivolto a garantire il miglioramento delle prestazioni sanitarie, il contenimento dei costi e la razionalizzazione della spesa sanitaria. L’introduzione di questo “efficientamento manageriale” ha però prodotto una dequalificazione delle risorse umane, un incremento dei tempi di proceduralizzazione e, in ultima analisi, una caduta della qualità e dell’efficacia.
È venuta meno una visione complessiva del SSN, lasciando il posto a una più regressiva e burocratizzata, con la perdita di una logica di sistema in grado di creare coesione sociale, sviluppo innovativo, anche d’impresa, senso d’appartenenza e d’identità inclusiva, che avrebbe richiesto investimenti e aperture di spazi d’innovazione. In buona sostanza, la salute era sostanzialmente vista come un costo, da governare con un presidio di iper-managerialità, in grado di controllare secondo una funzione di tipo gerarchico-specialistico lo sviluppo del sistema. In questa prospettiva si è perso di vista l’elemento della territorializzazione della gestione della salute, vissuto più come un appesantimento della struttura sociale, che come l’opportunità di sviluppo di un nuovo paradigma assistenziale e di società.
Dobbiamo arrivare al 1999 con il D.lgs. 299, definito anche Riforma ter, per introdurre correttivi alle derive regressive e di eccessiva aziendalizzazione introdotti in precedenza. Si conferma che il compito del SSN è quello di assicurare ai cittadini livelli essenziali e uniformi d’assistenza in tutto il territorio nazionale, garantendo principi d’equità nell’accesso ai servizi e livelli di qualità di cura e di accortezza nell’impiego delle risorse economiche. In coerenza con l’evoluzione in senso federale dello Stato e in attuazione del principio di delega, il DL.vo 299/1999 si propone di completare il processo di regionalizzazione con un SSN caratterizzato come il complesso delle funzioni e delle attività dei servizi sanitari regionali, in quanto alle Regioni compete principalmente la responsabilità di assicurare il sistema delle garanzie di promozione della salute e di prevenzione, cura e riabilitazione delle malattie e delle disabilità, definito nei livelli essenziali di assistenza.
All’interno di questa terza riforma ritorna un tema centrale nella precedente 833, che aveva rappresentato un elemento innovativo e di modernità del concetto di salute. Ovvero la territorializzazione attraverso l’istituzione del Distretto, problematica di fatto rimasta per larga parte irrisolta e mai applicata anche nel corso degli anni. La riforma ter ridefinisce la valenza del Distretto Sanitario ampliando e sviluppando quello di matrice organizzativo-funzionale delineato dalla 833/78, con uno di natura più tecnico-gestionale, ponendo le basi per un distretto “facilitatore”, il quale però non viene completamente colto nella sua funzione di promozione e sviluppo della assistenza territoriale. Rimane piuttosto intrappolato in logiche burocratico-amministrative che lo trasformano ora in una versione che viene definita “forte” ora in una versione “debole”. Definizioni applicabili più a visioni teoriche e discussione accademiche, che di realizzazione concrete.
Questa distinzione nasce dal fatto che le risorse e i fattori produttivi per la realizzazione del Piano delle Attività Distrettuali, ovvero quel piano volto a incrementare il “bene salute” in un determinato contesto territoriale, siano in capo al distretto stesso e a esso conferiti. Oppure destinate ad altri settori e segmenti dell’Azienda Sanitaria, come i Dipartimenti o ancora trattenute da una gestione centralizzata delle Regioni, facendo così del Distretto un organismo del tutto marginale rispetto al governo della salute ed escludendo nella maggioranza dei casi, anche quelle modalità di organizzazione professionale (acquisizione dei fattori produttivi, personale di studio, modelli erogativi), che in quegli anni si andavano formando nella Medicina Generale, che rappresentavano un esempio di organizzazione dal basso delle responsabilità professionali in relazione al governo territoriale della salute.
Dottor Massimo Magi
Medico di Medicina Generale FIMMG